di ALICE VERGA
Sono passati settanta anni. Era il 1945, oggi giornata internazionale della memoria delle vittime dei campi di sterminio, non vittima ma sopravvissuto la matricola numero 15801, Renato Gontero, classe 1925, testimone diretto della deportazione di uomini nei campi di punizione Nazisti.
Anche se è impossibile da tradurre in parole la storia che mi racconta nella sua casa di Bussoleno mi trafigge il cuore e ferisce l’anima.
Una storia che Renato, come quasi tutti i sopravvissuti, aveva taciuto nel raccontarla ad estranei, perché la sofferenza era come raddoppiata: non bastava l’infarto emotivo dei ricordi incancellabili delle sofferenze patite; il veleno aggiuntivo è la sua poca memoria vista l’età di quasi 90 anni e un po di timore nel farsi intervistare.
“Avevo diciannove anni – racconta – tutti i ragazzi vennero chiamati e radunati al Cinema Dora di Bussoleno per un semplice controllo di documenti, in realtà era un rastrellamento e ci portarono con il bus a Casermette di Borgo San Paolo a Torino”.
Inizia cosi il suo racconto che prosegue dalla stazione di Torino Porta Nuova fino a Kala-Tour in Germania, “un campo di lavoro dove si pulivano le latrine e stavamo ammassati in un teatro sulla paglia” prosegue Renato. “Poi ci portarono nella fabbrica di Gustloff-Werke di Hirternberg dove ero un aggiustatore meccanico”.
Dopo essere scappato due volte fu incarcerato a Wiener Neustadt e trasferito in Austria a Marjia Lanzendorf, campo di concentramento sotto il Comando di Schwechat, CC Mauthausen Faubourg di Vienna dove Renato non era più una persona ma la matricola numero 15801.
Nonostante fosse un deportato civile e non militare ci trascorse 17 mesi, “qui non c’erano ebrei e io lavavo i corpi dei morti” – mi sussurra Renato – “mi ricordo solo che sono scappato con indosso un paio di pantaloni a scacchi e mi sono ritrovato in un convento di suore dove poi sono giunti nel Settembre 1945 i Russi a liberarmi”.
Per ricordare, sempre al suo fianco in queste occasioni, oltre alla moglie Pina è presente Angela Gontero, figlia ed ereditaria dei ricordi del padre, che mi aiuta a mettere insieme i tasselli di questa storia.
Mi stupisce come da anni Angela abbia ricostruito questo viaggio che ho brevemente riassunto, aiutandosi di molteplici associazioni quali l’ANED e intraprendendo viaggi. “Nel 1989 siamo stati a Vienna – racconta – dove prima c’era il campo di sterminio ora abbiamo ritrovato un collegio di bambini e una città completamente ricostruita per non fare ricordare cosa realmente è accaduto lì.”
Alla fine dell’intervista, Renato nonostante un’inizio timoroso continua a raccontarmi: “Voglio ricordare che gli austriaci per conto mio sono sempre Hitleriani, perché quando siamo andati a cercare i miei documenti, loro ridevano tra di loro mentre io avevo perfettamente imparato il tedesco”, – prosegue Renato – “oramai ero un interprete, e sono andato a lavorare a Torino alla Nebiolo”.
Ricerche che proseguono perché senza i documenti cartacei, che sembrerebbero essere stati bruciati in Austria, Renato non può avere il vitalizio per gli ex-deportati.
Sarà scontato dirlo, ma ascoltando questa testimonianza ho capito quanto sono fortunata, e che a volte io e i miei coetanei ci lamentiamo per cose insignificanti. E’ giusto ricordare, e ancora più giusto spiegare alle nuove generazione che cosa sia successo, che cosa ha portato all’olocausto, perché non è stato fermato e soprattutto che cosa ha significato, tutto questo perché ciò non si possa davvero più ripetere.
Parole e racconti che rievocano la linea sottile tra la vita e la morte, e hanno profondamente riempito il mio pomeriggio.