A GIAVENO L’INCONTRO CON LO STORICO ALESSANDRO BARBERO

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dalla CITTÀ DI GIAVENO

GIAVENO – Presso la Sala Consiliare di Palazzo Asteggiano in via Marchini si terrà nella sera di venerdì 20 settembre alle ore 21 una conferenza organizzata dal Gruppo Fai Valsangone con la presenza dello storico Alessandro Barbero sulla battaglia di Caporetto avvenuta nel 1917.

A parlarci del drammatico evento storico sarà il professore torinese, ordinario di Storia medievale all’Università del Piemonte Orientale e noto volto televisivo. Laureatosi in storia medievale all’Università di Torino, Barbero ha successivamente conseguito il dottorato di ricerca alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Nel 1996 vince il Premio Strega con il libro Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo. Inoltre è autore di numerosissime pubblicazioni.

In apertura ci sarà il saluto delle Autorità seguito da quello del Capogruppo Fai Valsangone Flavio Polledro. Dialogherà con lo scrittore Sergio Vigna. L’iniziativa è patrocinata dal Comune di Giaveno, dall’Unione dei Comuni Montani Valsangone e dal Lions Club Giaveno Valsangone. L’ingresso è libero.

Oggi Caporetto si chiama Kobarid ed è un paese sloveno semisconosciuto al confine con l’Italia. Ma nella nostra memoria continua ad occupare un posto importantissimo, perché la battaglia che vi ebbe luogo dal 24 ottobre 1917 è stata la più grave sconfitta della storia italiana, la disfatta più pesante della Prima Guerra Mondiale contro le truppe austriache e tedesche. Quasi 300.000 soldati, spesso rimasti senza nome, morirono. Fu l’epicentro di trenta mesi di guerra condotta con scarso criterio, in cui le responsabilità politiche e militari, da quelle del comandante in capo Luigi Cadorna agli errori strategici di Pietro Badoglio, furono tante. Milioni di contadini, operai e artigiani, poco addestrati e male armati, persero la vita.

Da cent’anni la disfatta di Caporetto suscita le stesse domande: fu colpa di Cadorna, di Capello oppure di Badoglio? I soldati italiani si batterono bene o fuggirono vigliaccamente? Ma il vero problema è un altro: perché dopo due anni e mezzo di guerra l’esercito italiano si rivelò all’improvviso così fragile? L’Italia era ancora in parte un paese arretrato e contadino e i limiti dell’esercito erano quelli della nazione. La distanza sociale tra i soldati e gli ufficiali era enorme: si preferiva affidare il comando dei reparti a ragazzi borghesi di diciannove anni, piuttosto che promuovere i sergenti, contadini o operai, che avevano imparato il mestiere sul campo. Era un esercito in cui nessuno voleva prendersi delle responsabilità, e in cui si aveva paura dell’iniziativa individuale, tanto che la notte del 24 ottobre 1917, con i telefoni interrotti dal bombardamento nemico, molti comandanti di artiglieria non osarono aprire il fuoco senza ordini.

 

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