di ANTONELLA ZOGGIA (Sindaco di Bussoleno)
BUSSOLENO – È con molto piacere che porgo, a nome mio e della maggioranza in Consiglio, a tutti i presenti, alle Associazioni combattentistiche e d’Arma, alle Istituzioni, ai cittadini, alla Direzione Didattica, agli insegnanti ed agli studenti, i più sinceri ringraziamenti per aver accettato l’invito a celebrare insieme il IV novembre come giornata dell’Unità Nazionale e della Forze Armate.
Solo un accenno al doveroso, a parer mio, ripristino della Festività Nazionale, avvenuto in Senato il 12 luglio scorso, con l’augurio che diventi presto legge. “Lo dobbiamo alla nostra storia ed al nostro prezioso patrimonio fatto di uomini e di donne del nostro paese” così disse il Presidente Sergio Mattarella.
Faccio mie queste pregevoli parole, e, mutuandole, vorrei in questa significativa giornata, focalizzare l’attenzione su una figura importante, quella femminile, che ha rivestito un ruolo rilevante durante tutta la Grande Guerra e, con la legge del 20 ottobre 1999, che ha istituito il servizio militare volontario femminile, anche ai giorni nostri. Oggi, parlando del contributo delle donne alla Grande Guerra, si pensa soprattutto alle loro funzioni suppletive nel processo produttivo e ai ruoli assistenziali nelle retrovie.
Operaie, contadine, telegrafiste, dattilografe, macchiniste: sono solo alcuni dei lavori svolti
dalle donne durante la Prima Guerra Mondiale. La maggior parte degli uomini era stata infatti
inviata al fronte per combattere, lasciando scoperte migliaia di posizioni. Nel ricoprirle, quelle
che fino al giorno prima erano "soltanto" mogli devote, madri e donne di casa, offrirono un contributo fondamentale alla società e all’economia mondiali tra il 1914 e il 1918.
Ma non fu sempre e per tutte così. Alcune di esse, malviste ed ostacolate, vollero raggiungere i diversi fronti, per testimoniare in prima persona, per non separarsi dai loro cari, oppure per combattere. Covarono le stesse illusioni dei maschi e come loro vissero l’infrangersi delle proprie aspettative contro la totale insensatezza di quella carneficina che è stata ed è la guerra.
Ci furono scrittrici e corrispondenti di guerra che, pur di abbracciare le armi, si travestirono da uomini; la scrittrice inglese Flora Sanders partì come infermiera e riuscì poi a farsi arruolare nell’esercito, raggiungendo il grado di capitano.
Ma il caso più rivoluzionario fu quello della russa Maria Bochkareva, che ottenne di farsi affidare un’unità di fanteria interamente femminile, battezzata con il nome altisonante di “Battaglione femminile della morte”, che combatté in Bielorussa. La sua storia fu in realtà assai triste. Infatti, benché le circa duecento donne fossero state da lei duramente addestrate, esteticamente assimilate agli uomini e si fossero fatte valere in battaglia, dovettero scontrarsi con l’atroce misoginia dei compagni e l’abbruttimento e l’indisciplina delle truppe, tanto che l’unità venne presto smobilitata.
Si calcola che nel periodo della Grande Guerra la manodopera femminile crebbe considerevolmente, passando da 23.000 a 200.000 unità. Quella vissuta dalle donne d’inizio Novecento fu però una vera e propria rivoluzione, che diede una decisa scossa alle distinzioni fra i generi. Il tutto nel contesto di una società in cui il lavoro delle donne costituiva un’eccezione. Grazie alla guerra furono messi in discussione modelli di comportamento e gerarchie fino ad allora ritenuti immutabili.
Allo stesso tempo aveva cambiato radicalmente le donne, rendendole più indipendenti e consce delle loro capacità. Tuttavia, dopo la fine del conflitto, dovettero farsi “da parte” per il reinserimento degli uomini, cosa che scatenò malumori e proteste. Ma le donne non si arresero, ripresero a combattere per il raggiungimento di una maggiore emancipazione, insistendo, tra l’altro, per il diritto al voto che ottennero nel 1946.
La fine della guerra, per molte di loro, significò un ritorno ai vecchi ruoli, ma il cambiamento era in atto, le prospettive erano pian piano cambiate e la consapevolezza delle donne protesa ad ottenere un futuro migliore.
Voglio chiudere questa mia partecipazione con una poesia, che, per rimanere in tema, è stata scritta da una donna di Israele.
“Ho dipinto la pace” di Talil Sorek, giovane poetessa israeliana.
Attraverso un’immagine molto semplice, Talil, che all’epoca in cui scrisse questa poesia aveva suppergiù l’età dei ragazzi qui presenti, ci fa riflettere su ciò che può significare questa parola, pace, in una zona come il Medio Oriente, teatro di guerre terribili. Un concetto che vale in Medio Oriente come in Ucraina e in tutte le altre terre dove ci sono purtroppo ancora conflitti tra popoli.
Avevo una scatola di colori
brillanti, decisi, vivi.
Avevo una scatola di colori,
alcuni caldi, altri molto freddi.
Non avevo il rosso
per il sangue dei feriti.
Non avevo il nero
per il pianto degli orfani.
Non avevo il bianco
per le mani e il volto dei morti.
Non avevo il giallo
per la sabbia ardente,
ma avevo l’arancio
per la gioia della vita,
e il verde per i germogli e i nidi,
e il celeste dei chiari cieli splendenti,
e il rosa per i sogni e il riposo.
Mi sono seduta e ho dipinto la pace.
Grazie e buon IV novembre a tutti.