CORONAVIRUS, UNA VALSUSINA A LONDRA: “DA 15 GIORNI SONO CHIUSA IN CASA”

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LONDRA – La paura del Coronavirus arriva anche in Gran Bretagna, con un ritardo di circa dieci giorni dall’Italia. Solo la scorsa settimana il premier Boris Johnson scommetteva sull’immunità di gregge, ora invece si iniziano a stringere le maglie sull’emergenza anche oltremanica.

Con le parole di una valsusina, vogliamo farvi avere una fotografia attuale della capitale inglese, dove hanno trovato fortuna anche tantissimi italiani. Parliamo con Consuelo Michetti, trentenne originaria di Villar Focchiardo che ormai da circa 6 anni vive e lavora a Londra.

“La situazione qui si è evoluta molto rapidamente insieme alle dichiarazioni del governo. Dalla scorsa settimana gli italiani a Londra avevano iniziato a prendere precauzioni, anche io da ormai due settimane non vado più in palestra, non esco a cena, non vado nei bar o a casa di amici la sera. Fino a qualche giorno fa, tutti (a parte gli italiani) mi prendevano per pazza: per fortuna condivido l’appartamento anche con due ragazze italiane e iniziavamo ad avere coscienza della gravità della situazione, quando gli altri negavano tutto. E poi, nel giro di 48 ore, la situazione si è capovolta, sempre più gente ha iniziato a capire che non si poteva prendere così alla leggera, che questa è una vera e propria emergenza”.

“Lo scorso weekend io e altri amici italiani eravamo molto preoccupati, da un lato per quello che stava accadendo in Italia, dove ci sono i nostri cari, e dall’altro per ciò che si sentiva qui a Londra, dove la gente ci prendeva quasi in giro, pensando che il Coronavirus fosse una semplice influenza e non capivano il nostro dramma”.

Ci sono state delle contraddizioni da parte del governo inglese?

“Nonostante anche qua sia iniziata la corsa ai supermercati per fare scorte di cibo e beni di prima necessità, fino alla scorsa settimana le persone si trovavano ancora al pub. Sì, c’è stata tanta contraddizione, anche nelle dichiarazioni di Boris Johnson: fortunatamente le grandi aziende internazionali con sede a Londra, hanno deciso di muoversi indipendentemente. Ancora prima che il governo lo indicasse come consiglio, hanno chiesto agli impiegati di lavorare da casa. Chi lavora in ufficio come me, è stato tutelato da subito, purtroppo però c’è un’altra categoria di lavoratori come i baristi, i camerieri, i cuochi, i cassieri dei supermercati, che continuano a lavorare senza tutele”.

L’opinione pubblica è cambiata negli ultimi giorni?

“Sì, nell’evolversi delle cose, anche gente che sette giorni fa mi dava della pazza perché non volevo uscire a cena, adesso si è ricreduta: le persone ad oggi stanno sempre di più a casa senza nessun obbligo esplicito dal governo, si può uscire senza controlli e non c’è la polizia per le strade, anche se alcune zone della città sono deserte. Fortunatamente sono state chiuse delle linee della metropolitana, però i pullman circolano e le persone escono liberamente. Ora l’opinione pubblica è cambiata, anche il governo ha cambiato strategia”.

Se ti senti male a Londra attualmente, come si fa?

“Se hai i sintomi del Coronavirus, non puoi fare altro che stare a casa, non si può andare al pronto soccorso e non ti vengono a prendere con l’ambulanza a meno che la situazione non sia grave, c’è un numero di telefono da chiamare e il massimo che ti dicono è di prendere il paracetamolo. So di miei colleghi che hanno i sintomi, moltissime persone si sentono male e non sanno se hanno il Covid o meno: inoltre, a Londra la maggior parte delle persone vive in condivisione come me e ovviamente il rischio di contagio è altissimo. Sono situazioni critiche, qui il senso del dovere è molto forte: tecnicamente se si convive con un potenziale contagiato, si dovrebbe avvisare il proprio capo e non andare a lavoro, ma dato che quasi nessuno è sicuro di avere effettivamente contratto il virus, la maggior parte delle persone continua ad uscire per andare a lavorare. Questa decisione di effettuare i tamponi in maniera limitata è grave, ma credo che lo sia anche in Italia”.

L’azienda per la quale lavori si è affidata da subito allo smart working?

“Lavorare da casa a Londra non è una cosa straordinaria, moltissime aziende già lo consentivano. Personalmente, lavoro in modo abituale da casa almeno 2 o 3 giorni a settimana, anche i miei coinquilini lavorano a casa spesso. La mia azienda ha uffici in tutto il mondo (Cina, Giappone, Italia, Francia, ecc..), quindi già sapeva e già soffriva per il Coronavirus da tempo: settimane fa ha inviato delle mail dicendo a tutti i dipendenti che se non si sentivano a loro agio a recarsi in ufficio e a prendere mezzi affollati, potevano utilizzare lo smart working. Solo dall’inizio di questa settimana è stato imposto di non andare assolutamente in ufficio”.

In questa situazione di emergenza e paura, hai pensato di tornare a casa, in Valsusa, dalla tua famiglia?

“Non ho pensato di tornare in Italia perché vivo, lavoro e pago le tasse qua, non ho accesso alla sanità pubblica italiana, sarebbe solamente una scelta di comfort ed affettiva: invece di vivere in un appartamento con altre 5 persone, starei in una casa più grande e con più comodità. La mia casa è a Londra, non conosco neanche altri italiani che sono rientrati. Dato che c’è una situazione di incertezza totale rispetto al futuro, nel momento in cui tu scegli di lasciare il paese in cui lavori, in cui hai accesso ai servizi pubblici, non puoi essere sicuro di poter ritornare, semmai chiudessero le frontiere. È chiaro che la mia famiglia, i miei genitori, vorrebbero che tornassi in Italia da loro, per una questione emozionale, ma dal punto di vita pratico preferisco stare qui, anche per proteggerli e non contagiarli. Vivendo in una città come Londra, che comunque non si è fermata, non voglio – insieme a tanti altri italiani all’estero – essere come le persone che dal nord Italia sono andate al sud, portando il virus dalle famiglie e contagiando tantissime persone”.

La stretta delle ultime ore in Gran Bretagna potrebbe anticipare un “lockdown” vero e proprio, con misure simili a quelle in vigore in Italia, legalmente vincolante, per i londinesi e per tutti gli italiani che come Consuelo hanno fatto di Londra la loro casa.

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