di Stella Arena, Daniela Bauduin e Mila Grimaldi
La tragedia di Lampedusa ha provocato un’unanime ondata di commozione e sdegno che, a parte la sparuta pattuglia leghista, ha attraversato l’intera opinione pubblica e tutte le forze politiche. Eppure, ciò che, superato il momento delle lacrime e del lutto dinanzi a tutti questi morti innocenti, deve essere sottolineato è che così tante vittime nei nostri mari non sono un caso e non sono ascrivibili soltanto al cinismo dei trafficanti di uomini che lucrano sui viaggi della speranza, ma anche e soprattutto ad una legislazione europea ed italiana che mira a blindare le frontiere fino a trasformare l’Europa in una fortezza inaccessibile.
Peraltro, il luogo di confine non è individuato attraverso un dato fisico, naturalistico, ma è il risultato di una scelta politica che attribuisce al confine stesso un determinato ruolo, spesso rispondente a proclamate esigenze di ordine e sicurezza che sarebbero messe in pericolo dall’immigrazione. Le politiche comunitarie, volte a considerare i flussi migratori alternativamente come forza lavoro da impiegare nei processi produttivi o come questione di ordine pubblico, infatti sono ben lungi dall’affrontare il problema umanitario dei profughi che scappano da guerra, fame e disperazione e che secondo il diritto internazionale dovrebbero godere del diritto di asilo.
In Italia il Testo Unico sull’immigrazione, determinato dalla cd. legge Bossi-Fini peggiorativa della precedente e già restrittiva legge Turco- Napolitano, considera “clandestino” chiunque giunga nel nostro paese al di fuori dei canali in esso previsti che legano la permanenza sul nostro territorio ad un contratto di lavoro che dà diritto ad un valido titolo di soggiorno. Il cd. pacchetto sicurezza, approvato con la legge 15 luglio 2009 n.94, ha addirittura introdotto all’art.10bis del suddetto Testo Unico il reato di immigrazione cd. clandestina, che è una figura di reato anomala, in quanto punisce non una condotta ma uno status.
Inoltre per fronteggiare gli arrivi si è fatto ricorso alla pratica, condannata poi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, del respingimento collettivo in mare e ad accordi con gli Stati africani costieri, in primis la Libia, verso i quali i migranti venivano rinviati, senza minimamente preoccuparsi della loro sorte. Una sorte che è ben noto quanto sia ancora oggi drammatica: basti pensare all’indagine “0021 Trappola libica” (luglio 2013) condotta dall’Associazione In Migrazione sulle condizioni detentive dei migranti in Libia e il viaggio in mare, che raccoglie le testimonianze di trattamenti crudeli e degradanti, di stupri e di torture.
Infine va ricordato che chi giunge nel nostro territorio privo del permesso di soggiorno viene innanzitutto assoggettato alla procedura di identificazione, con il rilievo delle impronte digitali, e confinato in appositi CIE (centri identificazione ed espulsione) dove viene sottoposto ad un vero e proprio regime di detenzione amministrativa, che presenta palesi profili di incostituzionalità. Anche chi, se edotto sulle procedure, riesce a fare richiesta dello status di rifugiato, viene “accolto” in analoghi luoghi detti CARA (centri accoglienza richiedenti asilo), fintanto che il farraginoso meccanismo che porta all’accertamento dei requisiti cui è subordinato il riconoscimento di tale status non si è compiuto.
Se il quadro normativo è questo perché meravigliarsi di quello che accade ogni giorno dinanzi alle nostre coste? Se i comandanti e gli armatori dei pescherecci che soccorrono i barconi alla deriva rischiano l’incriminazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, in totale spregio alla legge del mare che impone sempre il soccorso, perché indignarsi di fronte a quello che si è verificato venerdì mattina a Lampedusa?
Se il regolamento di Dublino impone di chiedere asilo politico al primo Stato europeo in cui si giunge, perché sorprendersi se chi arriva da clandestino sul nostro territorio, terra di passaggio verso l’Europa continentale, tenti in tutti i modi di sfuggire alle procedure di identificazione?
Oggi a gran voce si invoca l’apertura di un corridoio umanitario per i profughi, ritenendo che almeno per chi proviene da paesi in guerra (ad es. siriani, eritrei, somali) dovrebbe essere possibile ottenere dei visti di ingresso regolari presso le ambasciate in modo da evitare di mettere a repentaglio la loro vita. Ma ciò a nostro giudizio non basta: visto che non ci è dato scegliere dove nascere, anche chi è costretto a lasciare il suo paese per fame, miseria o altri motivi di ordine economico dovrebbe poter godere della possibilità di sperare in una vita migliore senza doversi affidare a chi lucra sulla sua pelle.
Occorrerebbe quindi una modifica sostanziale dell’intera normativa sull’immigrazione partendo dall’abolizione del reato di clandestinità, perché nessun uomo in quanto tale può essere considerato illegale.