dagli “ALPINISTI IN ERBA”
“Alpinisti in Erba” è il nome che ci siamo dati, siamo tre ragazzi cuneesi che amano la montagna e la affrontano con un pizzico di goliardia..gestiamo appunto l’omonima pagina di Facebook e Instagram in cui scherziamo sulle vicende divertenti della montagna e rielaboriamo delle notizie dando la nostra versione ironica, mettendoci spesso in gioco sia per gli sfottò che per escursioni originali come questa rievocazione storica.
Quando C. ci ha chiamato per organizzare una serata in falesia, la prima cosa che ci è passata per la testa è stata “Di sicuro ha avuto qualche idea per una buffonata“. Non siamo grandi arrampicatori, anzi A. è anche un po’ allergico alle corde. Gli pare che limitino la sua libertà di movimento, le considera un impaccio, più che una sicurezza. Lui è così, la montagna ama viverla senza troppi fronzoli, fino a dove arriva bene, altrimenti si ferma e ammette i suoi limiti. Ma bisogna riuscire a stargli dietro fin dove arriva.
Ci ha stupito la proposta di un’arrampicata dopo lavoro, di solito preferiamo le camminate per le nostre riunioni – uscite. Eppure abbiamo risposto con entusiasmo, ci vediamo poco, i nostri lavori non si incastrano bene, quindi ogni occasione è sempre ben accetta.
C. è il classico tipo che non si tira mai indietro. Ha un fisico minuto ma fibroso, il lavoro occupa quasi totalmente le sue giornate e lascia poco spazio agli allenamenti, ma per contro lo tempra ogni giorno. Lui è il socio di montagna che ne ha sempre più di te, non importa la tecnica, ma le gambe ed il fiato.
Sotto un complicatissimo 5a inizia con la solita solfa “Avete delle idee per quest’anno? Dobbiamo inventarci qualcosa di diverso, troppo facile arrivare solo in cima“. Io, G., sto facendo passare la corda e cerco di capire come si sale sto primo passaggio, manco gli do troppa retta, altrimenti so già che qui non si arrampica niente. Inizio a salire, con l’insicurezza tipica che la prima via mi regala ogni volta, una sensazione non completamente positiva, ma inebriante. Ma del resto lo sanno tutti, sono io il fifone del gruppo, quello che fa la parte del papà quando viene il momento di tirare i remi in barca prima che la neve, il temporale, il buio ci prendano.
In qualche modo arrivo su e mentre C. mi cala mi accorgo che hanno già aperto il Dolcetto. Voilà. Come sempre è l’inizio della fine ma va bene, perché l’obiettivo della serata è un altro: organizzare qualcosa.
01/09/2018 ORE 5.30
Sembra impossibile che non ci fosse un tessuto migliore per tessere questa..come definirla..camicia di cotone da montagna? Non credo che riuscirò a resistere più di pochi minuti. E la giornata è appena iniziata.
Alla partenza da Mompantero il cielo è ancora scuro, tre loschi individui vestiti con un costume del 1300 armeggiano con dei sacchi di iuta; in qualche modo bisogna ben coprirlo lo zaino. Alla fine il lavoro non viene male ma tra stemmi, copri zaini artigianali, orpelli vari e foto di rito non partiamo prima delle ore 6.45 circa. Una signora molto mattiniera ci osserva dalla sua cucina, unica luce in un paese ancora addormentato.
Avevamo letto varie relazioni sulla salita ma sul campo la questione è sempre diversa. Da subito sentiamo tutta la pendenza: una media del 30% secondo i nostri calcoli. Il Monte Rocciamelone può essere definito unico nel suo genere, nelle Alpi son poche le possibilità di fare 3.000 metri di dislivello positivo su uno sviluppo di circa 10 chilometri; per contro la salita è un muro che non molla mai. Dopo la prima ora e mezza a passo allegro vediamo un cartello della Redbull3K, recita -2000 metri. Abbiamo superato la parte più complicata, pensiamo, dove il sentiero è incassato fra vecchi coltivi e la vista ancora non distoglie dalla fatica. Da qui iniziano i segni degli incendi che negli anni passati hanno martoriato la zona. E subito iniziano le riflessioni su distruzione, rinascita e ambiente. Ci perdiamo in chiacchere insomma. Per fortuna un cartello con le tempistiche per la cima ci riporta al nostro obiettivo, abbiamo un appuntamento al Rifugio La Riposa con una mezza dozzina di amici e non vogliamo farli aspettare. Svariati “Ma chi ce l’ha fatto fare” e poi su a testa bassa che la strada è ancora lunga. Ci concediamo giusto il tempo di mangiare del miele e del cioccolato in borgata Trucco.
Fin quasi alla Riposa non incontriamo nessuno, poi ci vediamo rincorrere con una moto da trial da un malgaro e tre cagnoni. Ci accusano di non aver chiuso un recinto attraversato dal sentiero dopo il nostro passaggio. Con un po’ di imbarazzo spiego che non siamo stati noi: il sentiero l’abbiamo perso tempo prima ed abbiamo deciso quindi di tagliare per i prati, dove la pendenza era ben maggiore di quella media di cui sopra. Il malgaro, dopo una rapida occhiata, sembra crederci e addirittura si scusa. Forse ha pensato che avessimo già abbastanza problemi senza la sua ramanzina.
Alla Riposa veniamo accolti dai gentilissimi gestori che con una birra in parte ci sollevano il morale e in parte ci lasciano interdetti: “da che cosa siete vestiti?” ci chiedono, “da elfi?“. Ci viene il dubbio di aver sbagliato qualcosa.
Il tempo segna poco meno di tre ore dalla partenza ed io inizio ad avere male alle mani, i bastoni di legno grezzo che utilizziamo non sono confortevoli come i bastoncini da trekking. Aspettiamo i nostri amici pronti per la spiegazione, solo due di loro sanno del nostro progetto di salita in costume e gli altri sicuramente avranno delle domande.
“Oggi, primo settembre, sono esattamente 660 anni dalla prima ascesa del Monte Rocciamelone ad opera di Bonifacio Rotario” esordisce C. con la sicurezza di chi ha già conquistato il suo pubblico. E poi continua “Siamo nel 1358, Bonifacio, appartenente alla nobile casata dei Rotario, o Roero che dir si voglia, di Asti è impegnato nelle crociate in terra santa; in un momento di perdizione si affida alla Madonna con un voto. Se riesco a tornare nelle mie terre porterò una tua immagine sulla prima vetta che vedrò. Certamente sarebbe potuta andargli peggio, il Monviso sarebbe stato molto più complesso da scalare, ma il Rocciamelone rappresenta un certo impegno, soprattutto con gli scarsi mezzi dell’epoca (e noi ne sappiamo qualcosa a questo punto); inoltre dovete considerare la mancanza di conoscenze su quale via seguire per la vetta e la quasi totale assenza di sentieri al di sopra dei pascoli“. I nostri amici ci prendono in giro e danno giudizi che non riporto sulla nostra sanità mentale; si chiedono “Ma perché?“, e io non trovando una risposta incalzo “Questa ascesa è considerata una delle prime delle Alpi, stiamo parlando della nascita dell’alpinismo, anche se un po’ raffazzonato“.
A., che da qualche tempo lotta con il suo copricapo di iuta, inizia a spazientirsi, è ora di ripartire. Lasciamo che i nostri amici freschi di gambe segnino la rotta verso il Rifugio Ca d’Asti che raggiungiamo in poco più di un’ora su di un sentiero che pare tracciato con il righello; una linea quasi dritta a parte poche divagazioni tra il Rifugio La Riposa e il Rifugio Ca d’Asti. Poco dopo i 2800 m di quota ci accorgiamo che la temperatura è scesa notevolmente e ci assale una sensazione familiare: il tempo sta cambiando e dopo pochi minuti iniziano a scendere i primi fiocchi di neve. Ci stringiamo nelle nostre vesti e iniziamo ad apprezzare i tessuti così spessi che qualche centinaio di metri sotto avremmo voluto bruciare.
Al Ca d’Asti siamo accolti da una piccola folla stupita e iniziano subito le fotografie e le domande dei curiosi. “Assomigli a Robin Hood” mi dice qualcuno. Non sembra invece stupito ma piuttosto divertito l’aiutante del gestore, molto informato sulla storia dei luoghi ci racconta un paio di aneddoti grotteschi. Ma il nevischio irregolare ci spinge a non riposare, ripartiamo spediti nel giro di pochi minuti, mancano ancora 700 metri e la vetta quasi non si vede più a causa del meteo avverso.
Il tratto dopo il rifugio risulta in parte monotono, soprattutto quando la nebbia ci avvolge e non permette allo sguardo di spaziare sulle cime dell’alta Valle di Susa. Percorriamo il tratto fino alla croce di ferro a rilento, gli incontri con le persone in discesa dalla cima si fanno più frequenti e difficilmente la nostra presenza passa inosservata. E allora avanti con le dovute spiegazioni, qualcuno del nostro gruppo specifica ad ogni incontro “sono alpinisti in erba e seguite le loro avventure“. In particolare incontriamo un valligiano sulla sessantina, ci racconta che per lui questa è la 55° ascesa del Rocciamelone; certo non ai livelli del Sig. Fulgido, brillantissimo gestore del Ca d’Asti (1101 volte), ma un traguardo ragguardevole. Ricordiamo ancora il suo lungo urlo quando ormai siamo ripartiti “a sarà duraaaaaaaaaaaa!!” con quella “a” mantenuta per una ventina di secondi. Mai frase fu più veritiera.
Questa si rivelerà l’ultima sosta prima della cima, ormai le nostre vesti medievali non bastano più e le gambe, le mani ed il naso gelati ci fanno aumentare il passo sulle rocce finali. Siamo nel pieno della nebbia e nevica per bene. Quando intravedo la scritta “wc” con la freccia verso il basso poco sotto la cima provo un certo senso di liberazione (che sia stata messa lì apposta?), seguendo le frecce pare incredibile che qualcuno si avventuri verso quel baratro solo per espletare un bisogno fisiologico, ma poco importa perché ci siamo.
Vicino alla Madonnina non si può stare, il vento tagliente ci permette giusto qualche fotografia e poi ci obbliga a rifugiarci nel bivacco di vetta, dove troviamo già una decina di persone stipate in trepida attesa di una cena anticipata. C’è l’abbiamo fatta, gli Alpinisti In Erba ce l’hanno fatta!!
Guardo il mio gps, segna 3.000 metri di ascesa, guardo la neve che si perde nella nebbia, guardo i miei amici, tutti infreddoliti ma fieri di essere arrivati in punta, guardo il mio riflesso distorto nel vetro della porta del bivacco, mi viene da ridere. Sembro proprio Robin Hood.
Ma le calzature, dettaglio non trascurabile in una camminata, non sembrano quelle del 1300.