Svegliati di soprassalto nel cuore della notte. Svegliati per i singhiozzi di tua madre in piedi di fianco al letto.
Scendi le scale di casa e guarda sei gendarmi in piedi intorno a tuo padre, che seduto legge dei fogli scritti fittamente.
Guarda quei sei gendarmi frugare ovunque, anche nel cassetto dove tieni le mutande, e, se hai appena traslocato, guardali aprire senza garbo gli scatoloni e rovesciarne il contenuto sul pavimento.
Prepara una borsa inutile con le mani tremanti, mettici dentro tutti i pacchetti di sigarette che trovi per casa (nei film che hai visto sono merce di scambio e non puoi sapere che, nella realtà, verranno trattenuti dall’Amministrazione) e abbraccia tuo padre.
Abbraccia tuo padre di nuovo.
Guardalo uscire dalla porta con i gendarmi a braccetto, tre per parte.
Non sai quando lo potrai rivedere.
Siediti per terra, cerca di respirare anche se i tuoi polmoni sembrano riempiti fino all’orlo di cotone.
Non importa come ti chiami, quanti anni hai, se studi, cosa studi, se sei ricco, se sei povero, se l’indomani dovevi laurearti, sposarti o farti cavare un dente, se sei bianco o di un altro colore.
Da ora in poi sei e sarai (sempre) il figlio di un detenuto.
D’ora in poi il tuo paese smetterà di pensare che sei innocente, che sei onesto o che tu abbia diritti pari a quelli di tutti gli altri figli cittadini del tuo paese (i figli non cittadini, invece, sanno già molto di più che cosa ti aspetta).
Tu, per contro, comincerai a sentirti indifeso e minacciato ogni volta che ti troverai di fronte una divisa, confuso nello scoprire quanto i confini del bene e del male non siano affatto definiti dal significato di quella divisa.
Questo pezzo è dedicato a te.
I moderni luoghi deputati alla detenzione sono posti alle periferie della città tanto quanto lo sono alle periferie della vita e della società.
Ed in quei mondi, isolati e distanti, non solo gli uomini che “hanno sbagliato e devono pagare” sopravvivono in uno stato di oziosa cattività, ma, accanto a questi uomini, parimenti bloccate, ci sono le loro famiglie, non dall’altra parte del muro ma dall’altra parte del tavolo.
I famigliari, più di tutti, sono dimenticati dalla società, dal legislatore, dalla politica.
Loro, più di tutti, subiscono e sopportano stigma e soprusi nella più piena innocenza (sulla piena colpevolezza di quanti sono detenuti il discorso, fondato sulle statistiche di un carcere fatto di miserabili, meriterebbe una sede a parte).
Sono, siamo, centinaia di migliaia di figli.
E proviamo vergogna per le cose sbagliate, camminando verso l’ingresso di un carcere grigio, come grigi sono tutti, con il capo chino e una borsa della spesa di plastica colorata sotto il braccio.
E sopportiamo fatti e parole che sarebbe nostro diritto non sopportare affatto, sospinti dal desiderio di un abbraccio che alla fine giunge, per qualche ora al mese, in mezzo a tanti altri, sotto lo sguardo severo di un vetro specchiato, tra due porte blindate che sembrano uguali ma non lo sono, perché una porta all’inferno e l’altra alla libertà.
E quell’abbraccio, per tutto questo e per tutto quello che nemmeno si può descrivere, non ha infine mai lo stesso sapore degli abbracci di prima, di fuori.
Non dovremmo sopportare l’assurdo sistema di prenotazione e turni per i colloqui: quattro o sei ore al mese – cumulative, e non a testa! – da sfruttare nei giorni e nelle ore stabilite dall’Amministrazione e solo dietro prenotazione congruamente anticipata.
Prenotazione che va fatta telefonando ad un numero che suona SEMPRE occupato o, peggio ancora, recandosi di persona presso l’istituto, anche se lontano ore da casa.
Non dovremmo sopportare le ore sconsiderate d’attesa all’ingresso e non dovremmo sopportare che l’agente di turno dica sempre “mancano dieci minuti”.
Non dovremmo sopportare che, per un motivo o per l’altro, il pacco in entrata sia sempre, frugato, ribaltato, espunto di qualcosa.
I kiwi a pezzetti sono un elemento di pericolo, le fettine di carne sono troppo spesse, il giubbotto pesante è troppo pesante.
Non dovremmo sopportare di effettuare i colloqui uno sopra l’altro, nello sporco, nella totale assenza di privacy e a fianco di una famiglia che a colloquio mangia i torcetti perché ha allungato la cifra giusta all’ingresso.
Che a saperlo, quanto e a chi, allungheremmo anche noi, pur di far entrare quell’orologio trasparente e di plastica, come da normativa, che ci siamo scapicollati ad acquistare e che giace in un qualche misterioso ufficio da settimane.
Non dovremmo sopportare che le nostre lettere, il nostro ultimo scampolo di intimità, siano aperte e, tanto meno, che siano arbitrariamente smarrite.
Non dovremmo sopportare di recarci ai colloqui con troppi TROPPI bambini passando di fronte ad una stanza denominata “sala bimbi”, con le margherite alle pareti e l’aria intonsa di un locale che di ragazzini non ne ha mai visto nemmeno l’ombra.
Non dovremmo sopportare i corridoi marci, l’ottusa ed inumana burocrazia, la grettezza e la violenza degli agenti all’ingresso ed ogni altro sopruso che ci viene chiesto, anzi imposto, di subire senza dir nulla.
E forse, alla fine di tutto questo, il diritto che ci verrà a mancare di più sarà un altro ancora.
Mentre cresceremo senza la mano di un genitore che ci sostiene, mentre ci sbucceremo senza che lui possa mettere un cerotto, mentre piangeremo senza che lui possa asciugarci le guance, mentre saremo spaventati senza che lui possa dirci “andrà tutto bene”, mentre faremo i nostri primi passi, baceremo per la prima volta qualcuno, faremo il più grande errore della nostra vita, prenderemo una laurea, ci sposeremo, avremo un figlio, ci ammaleremo, mentre moriremo senza che lui possa vederci, sentirci, viverci, sarà davvero una sola la cosa che mai riusciremo ad accettare.
Ci verrà sempre negato il diritto di sapere che senso abbia tutto questo.
Il problema è che finchè accetteremo tutti a testa bassa le leggi dell’uomo sopra quelle della natura ci sarà sempre sofferenza. L’omicidio non è sbagliato in quanto la natura ha dotato gli animali di denti ed unghie per uccidere e mangiare le proprie prede. Se l’omicidio non è moralmente sbagliato agli “occhi di madre natura” allora nulla, NULLA lo può essere…furti, spaccio, truffe, danni, stupri, stragi…sono solo parole. Finchè sceglieremo la comodità di un ospedale, dell’elettricità, delle macchine, della scuola, dei telefoni, e così via non ci libereremo mai di questo stigma che rappresentano le forze dell’ordine e gli eserciti.
Bisognerebbe uscire di casa ed iniziare a spaccare il cemento, tirare giù i palazzi e bruciare i cimiteri. A quel punto saremo liberi, nessuno soffrirà e la morte sarà solo un altro passo da compiere
Solo dalle persone speciali può ricevere cosi tanto amore….e tu lo sei.
chi e’ al di fuori del contesto non potra’ mai capire le tue parole anzi le violenze psicologiche i maltrattamenti i soprusi la maleducazione che c’e attorno al detenuto e alle famiglie dei detenuti io mi ribello ogni qualvolta entro in quello schifo per fare un’ora di colloquio e percio’ per un’ora di colloquio ne devi perdere 5 per tutta la lentezza per tutto il menefreghismo pe tutta la mancanza di professionalita che manca agli agenti di custodia che stentano a parlare la lingua italiana buttandoti in faccia i documenti che tu gli conbsegni per la tua identificazione potrei andare avanti per ore ma fino a qundo tutti fARANNO I CONIGLI QUESTO DEGRADO NON POTRA MAI CESSARE
sii forte, e porta avanti la tua battaglia con determinazione e pacatezza, alla fine conquisterai il rispetto di tutti !
Purtroppo il problema giustizia in Italia si pone solo allorquando dietro le sbarre finiscono i colletti bianchi. Il carcere funziona semplicemente come discarica sociale. E’ un posto per poveri.