di MARIO RAIMONDO
Da ragazzino mi piaceva la guerra… Mi piaceva sentirne parlare, giocarla, a palla e soldatini, o nel boschetto con gli amichetti, a colpi di fionda o cerbottana… Una volta mi costruii una vera arma; issai in punta ad una pertica un mucchio d’ortiche ed inseguii per tutto il cortile Giuseppe Carè dandogliela addosso ed urticandolo tutto sino a renderlo paonazzo.
Avevo vinto la battaglia ma poi subito persi: fu mia madre a sparigliare la partita con un sonoro ‘pagliano’… La guerra era bella al cinema Sada quando, nei lunghi pomeriggi della domenica, guardavamo qualche film del genere: per sfruttare appieno il biglietto, guardavamo sempre il film due volte: accadeva così, ai nostri occhi d’ infanti, che tutti quelli caduti nella prima proiezione, recidivi, tornavano nella seconda…
La guerra non faceva male, ma non era così… non era stato davvero così! Me lo raccontò mio nonno un giorno in occasione di un pranzo nella sua casa, in quell’angolo di mondo che è St.’Versin al Villar… Il Cavaliere di Vittorio Veneto Luigi Versino, medaglia d’Argento al Valor Militare (Vigiu d’Montenero, così soprannominato per il fatto che canticchiava spesso la canzone ‘Montenero’ per via del fatto che era stato uno dei soldati sopravvissuti a quella battaglia), quel giorno tirò fuori dallo stipite, dove lo custodiva come reliquia, una gavetta militare: “Arriva dal Montenero e me la diede sessant’anni fa un soldato morente, tal Giacomo… Vedi cosa c’è inciso nell’alluminio :’Ad Emilia per il suo infinito amore 1915″.
Eravamo là quella notte tra il 15 e 16 giugno a fare la guerra, quelle vera e questa gavetta te la regalo perchè devi custodirla…
Se avessi saputo che era Giacomo, se avessi saputo chi era Emilia, avrei cercato di fargliela avere… ma non fu possibile: ”A tavola tutti tacquero, perchè molti sapevano della Grande Guerra ed anche della più recente Seconda, erano ricordi molto vivi…
E continuò: “ Ciò che accadde allora fu terribile… è difficile raccontarlo, avere le parole. Bisognava uccidere per non essere uccisi e il vivere ed il morire era mano del destino o determinazione dell’istinto. Abbiamo visto e fatto cose assurde… Quando tuonava il cannone diventavamo quasi sordi e questa ‘sordità’ creava in noi soldati uno stato di obnubilamento… svaniva persino la paura… non eri più un uomo, forse non eri neanche più un soldato ,eri solo carne, carne da macello o macellaio, o tutte e due le cose contemporaneamente… Quando arrivava il silenzio, il risveglio della coscienza era drammatico… la paura… la morte, l’odore della carne in putrefazione… Quello che prima era vicino a te era sparito, svanito per sempre. Il prossimo chi era? Forse io ,forse un altro. I soldati feriti gemevano, chiedevano aiuto al silenzio di Dio, chiamavano il nome delle loro madri… chi poteva ascoltare le loro voci? Non fu la nostra guerra…La maggior parte di noi soldati era fatta di operai, braccianti e contadini, moltissimi erano analfabeti, molti non sapevano neppure perchè erano lì a combattere, altri non sapevano neanche che cosa fosse l’Austria o l’Italia. Che importanza aveva per il soldato se quella terra era Austria o Italia, non era forse solo Terra?”
“Nel fango della trincea non c’erano bandiere, c’erano solo dei disperati, e poi quale Italia, quale amore per le ragioni dell’Italia? Una volta i nostri comandanti ci fecero fare una cosa assurda: eravamo nei pressi di una collina nel Carso e durante l’avanzata verso la cima scoprimmo che gli austro-ungarici si erano ritirati… Noi subito la occupammo. Avevamo sottratto un lembo d’Italia al nemico senza colpo ferire, ma il comando ci richiamò indietro perchè era stata conquistata senza onore, senza bagnare del nostro sangue il sacro suolo.
Forse l’ufficiale monarchico che impartì tale dissennato ordine pensava che l’aver tanti morti da portare in dote al ballo delle debuttanti fosse un merito.
Forse era ubriaco delle parole vergate dal Vate, o pensava che le idee di Marinetti e del suo Manifesto, dove si elogiava l’igiene della guerra fossero sacrosante, soprattutto se spese sulla pelle degli altri.
La Grande Guerra fu un lungo massacro di ‘uomini contro’, l’inutile strage contro cui, inascoltate, si levarono le parole del Sommo Pontefice Benedetto xv. La conquista del Monte Nero fu un vero ardimento da parte del Regio Esercito tale da suscitare l’ammirazione avversaria.
La cronista di guerra austriaca Alice Schalek scrisse che quello compiuto dagli Alpini era ‘stato un colpo da maestri’.
Dal punto di vista militare fu sicuramente così: nel Giugno del 1915 l’iperattivismo degli italiani lungo la linea del fronte comportò la cessazione dei tentativi di attacco da parte delle truppe di Cecco Beppe. Questa sensazione di superiorità italiana in quella parte del fronte indusse il Comando Italiano ad attaccare il Monte Nero, la cui capitolazione sarebbe servita ad aggirare la testa di ponte di Tolmino e a raggiungere la linea dell’Isonzo. L’attacco venne portato da due lati ,ad effetto tenaglia. Nella notte tra il 15 ed il 16 Giugno 1915 la 35° compagnia degli Alpini (battaglione Susa) al comando del Capitano Vittorio Varese, superata l’irta salita, irruppe a sorpresa nel trincerone austriaco di quota 2138 e dopo un furioso combattimento ne ebbe la meglio costringendo i difensori superstiti alla resa. Continuò poi l’avanzata, sotto un terribile fuoco nemico, sino alle garitte di quota metri 2133,che espugnò.
Contemporaneamente gli uomini dell’84° compagnia (130 Alpini del battaglione Exilles) al comando del Capitano Vincenzo Albarello – e preceduti dagli esploratori del Sottotenente Alberto Picco che lì trovò la morte – con gli scarponi fasciati ed il passo felpato mossero verso la vetta del Monte Nero. Appena giunti in prossimità delle ridotte nemiche gli Alpini si lanciarono all’attacco, cogliendo gli asburgici di sorpresa, in una bestiale lotta corpo a corpo a colpi di baionetta.
Il Monte Nero diventò così italiano. Ma a quale prezzo però! Luigi fu uno di quei soldati e fu salvato. Giacomo fu sommerso. Prima di morire a seguito delle ferite, diede la gavetta a Luigi ed un nome, Emilia, che rimase solo un nome… “Questa fu la guerra – chiosò Luigi Versino – una lotta tra disperati che dovevano ammazzare per non farsi ammazzare”.
La vita dei soldati era nulla, valeva meno di nulla… Parole di Giuseppe Ungaretti: “Si sta come d’autunno le foglie sugli alberi”. Parlando di queste cose Nonno Luigi un pò s’adombrava: era una roccia, ma quanto vissuto e rimembrato aveva lasciato il segno…
E non per l’ultimo dispetto dello Stato Italiano che non era mai riuscito a stabilire un vitalizio decoroso per i superstiti di quell’immane conflitto (forse già all’epoca i soldi risparmiati per i Cavalieri di Vittorio Veneto erano in qualche modo drenati alla greppia degli Onorevoli o dei papaveri di Stato). Ma perché se le ferite della carne possono rimarginarsi le ferite dello spirito rimangono sempre vive, non cicatrizzano mai.
Per me era una quercia ,era come i nostri castagni… nessuno poteva abbatterlo. Gli volevo bene. A tavola, sentendo le sue storie, i commensali tacevano: in molti avevano ricordi familiari della Grande Guerra.
Poi mi prese in braccio, mi sistemò sulle ginocchia, accarezzandomi con quelle mani ruvide i capelli. Parlò: “Prendi questa gavetta, adesso è tua. Un giorno quando non ci sarò più, quando saranno passati cent’anni dalla battaglia del Monte Nero, forse potrai ricordarti di questa storia, potrai raccontarla… Potrai raccontare di quanto la nostra generazione ha sofferto per nulla, di come le idee di pochi, possono decidere arbitrariamente della vita di molti. Spero che la tua generazione non debba mai vedere e patire quel che successe a noi”.
A tavola tutti tacevano. In un angolo, seduti su d’una sedia Enrì Miletto e Livio Ravoira, ciondolavano col capo. Vigiu D’Montenero allora attaccò con quella canzone: “Spunta l’alba del 15 Giugno, comincia il fuoco l’artiglieria, Terzo Alpini è sulla via, Monte Nero a conquistar”.
Fuori nell’aere meridiano le vampate incandescenti del Sole illuminavano una giornata stupenda.
Era domenica 15 Giugno 1975, orizzonte di un’altra estate.