di PAOLA TESIO (Fotografie di LUCA GIUNTI)
“I lupi hanno sempre abitato la nostra penisola. Sono stati costretti ad assentarsi per sessant’anni, un periodo breve nelle dinamiche naturali. La vita non ama i vuoti, li riempie. Lasciato libero spazio al lupo, il lupo si è allargato. E dove torna solleva sempre gli stessi problemi: provoca danni e suscita paure. I danni sono concreti e attuali, le paure molto meno. Ma le affrontiamo con pensieri medievali”. Con questo messaggio, iscritto nell’ultima di copertina, Luca Giunti condensa l’intero percorso del suo libro fresco di stampa “Le conseguenze del ritorno” edito da Alegre. Il volume sarà presentato a Mattie il 17 luglio (ore 17, all’esterno del polivalente) e il 22 luglio in frazione Città a San Giorio, sempre alle ore 21 nel piazzale della chiesa.
Un’opera che come lo stesso autore sottolinea non vuole essere un saggio, una pubblicazione scientifica, un romanzo, un’invenzione eppure le pagine che si svelano al lettore attento sono l’essenza di tutte queste forme, le trascende e riesce ad andare oltre, perché in quel prezioso oggetto narrativo che non potrebbe essere superficialmente catalogato c’è molto di più: ci sono i passi cadenzati delle suole consumate di un guardiaparco che ama la natura sin da quando era bambino, lo sguardo esperto ed indagatore dell’uomo lungimirante che senza pregiudizio si pone delle domande dialogando con le persone in un ascolto attivo e sedimentando le esperienze, gli studi universitari in scienze naturali conquistati a quarant’anni con una tesi magistrale dedicata al ritorno del lupo sulle Alpi piemontesi, le innumerevoli pagine di libri, tra cui alcune molto antiche, sfogliate ed annotate con passione che abbracciano i campi della storia, dell’antropologia e della filosofia, la profonda conoscenza del Canis lupus italicus, nonché una vita di osservazione passata tra le montagne senza dimenticare i vasti spazi del Nord America oppure l’inseguire le tracce del Canis lupus arctos con Dave Mech e neppure la passione per la fotografia che amplia inevitabilmente lo sguardo su orizzonti e dettagli.
Del resto, pensare al lupo oggi pone, come un tempo, in una posizione privilegiata che non può essere soltanto incasellata tra il bianco e nero di chi si schiera a favore e di chi si erige contro, ma deve essere analizzata tenendo in considerazione luci, ombre e innumerevoli sfumature. D.H. Pimlott nel 1961 sui problemi di conservazione di questi carnivori sollevava una questione ancora attuale: “Il lupo pone una delle domande più importanti del nostro tempo nel campo della conservazione della natura” chiedendosi se sarebbe ancora esistito: “Esisterà ancora o l’uomo l’avrà sterminato a finale dimostrazione della sua conquista sulla natura e degli animali che osano entrare in competizione con lui?”.
Non solo il lupo ha resistito ma come insegna Luca Giunti ricopre il gradino più alto della scala ecologica insieme all’ uomo, e quest’ultimo ne è una sorta di rispecchiamento: “Ci rispecchiamo nei loro occhi, ci riconosciamo. Ci mettono a nudo e questo non ci piace”. Dispersione, socialità e territorialità sono le caratteristiche etologiche che con gli umani condividono. Nel leggere le profonde connessioni messe in luce dall’autore, tra uomini e lupi, si è colti da una sorta d’immagine in bilico tra assonanza e dissonanza di questi rapporti; si possono scorgere due figure in ombra che percorrono gli stessi cammini incrociandosi attraverso i secoli.
Dal primo incontro alla domesticazione, dalle paure ancestrali alla relazione, dai miti agli archetipi che abitano l’inconscio collettivo e da questi alle fiabe e alle favole. Le loro differenti silhouette talvolta si sfiorano ma non si raggiungono: l’uomo che abbandona la montagna discendendo a valle verso le fabbriche e le città, il lupo che risale.
È facile intuire lo sguardo e lo sgomento umano rinchiuso tra gli stabilimenti: osservava le distese che aveva lasciato con quell’errante nostalgia, poi di nuovo è risalito verso le montagne, mentre il lupo è sceso a valle occupando altri spazi favorito dal recente lockdown che in qualche modo ha sottratto del rumore apportando del silenzio. Intanto il paesaggio si è plasmato di volta in volta, oggi con la pretesa di fare delle montagne delle piccole città illuminate perché il buio fa paura, così come il respiro del selvatico e, citando Leopardi, dimenticando l’importanza di cogliere il senso dell’infinito.
Straordinarie le parole di Luca Giunti che coglie i sentieri percorsi dai passi di questa dicotomia: «Mentre donne e uomini scendevano dalle montagne, i lupi le risalivano. Due flussi di migrazione si sono incrociati tante volte, ognuno ignaro dell’altro. Un gruppo spinto da ragioni economiche, l’altro da istinti naturali. Entrambi per sopravvivere e per andare a stare meglio di prima. Da sempre speranza e di-speranza sono le molle che spingono ogni specie a ogni migrazione”.
Risuonano le sue riflessioni: “Ritornano. Scendono dai monti, si spostano col buio, appaiono inattesi al limite dei campi e negli hinterland delle grandi città. È un eufemismo dire che i lupi si erano “quasi estinti”. Li avevamo sterminati. A fucilate, con le tagliole, coi bocconi avvelenati. È accaduto più o meno cent’anni fa. All’epoca le nostre “aree interne”, sull’arco alpino e lungo la dorsale appenninica, erano ancora abitate. Nella seconda metà del Novecento si sono gradualmente spopolate. A partire dagli anni Ottanta, dalle minuscole e inaccessibili enclave dove si erano rintanati, i pochi lupi superstiti hanno ricominciato a guardarsi intorno. E a camminare. E a macinare chilometri. Sempre più chilometri. Decine di chilometri nel corso di una sola notte. È stato così che il lupo ha ripopolato le nostre montagne, ed è ormai avvistato anche in pianura. Durante il lockdown del 2020 ha colto l’occasione per spingersi dove non avremmo mai immaginato, poco fuori le nostre città e a volte addirittura dentro. Come stiamo rispondendo a questa riapparizione, a quest’antica e rinnovata presenza?”.
Luca Giunti, partiamo da questa domanda: come rispondere all’appropriazione? Nel libro paragoni il lupo a Socrate, alla sua arte maieutica, al pungolare facendo emergere delle domande. Non sempre i programmi di abbattimento si sono rivelati utili. Il “nuovo” piano di azione nazionale del lupo, in realtà di innovativo ha ben poco, ricalca sostanzialmente il modello francese che pare non aver dato i risultati auspicati. Nel tuo libro accenni ad una terza via, che si situa proprio tra abbattimento e difesa ed è quella dell’educazione: “Educare è meglio di uccidere”. Potresti spiegarla?
Volentieri. Uccidere, in ogni campo, è facile, comodo, sbrigativo. Educare è complicato, difficile, lungo. Però è più efficace, soprattutto è un investimento verso il futuro. Uccidere è sostanzialmente un’azione solitaria, educare è un’attività collettiva. Un bel proverbio africano sostiene: “Per fare un uomo ci vuole un villaggio”. Trasposto nel nostro campo vuol dire coinvolgere tutti gli attori, le istituzioni, i pastori, gli escursionisti, gli ambientalisti e sforzarsi – nonostante le inevitabili difficoltà e incomprensioni – di trovare un percorso comune. Non è facile, ripeto, ma mi appare uno sforzo obbligatorio per uscire da contrapposizioni sterili e troppo partigiane. Per sublimarle, speriamo.
Talvolta si dimenticano i danni agli allevatori, le politiche di risarcimento e soprattutto la prevenzione. Oltre alla svalutazione del loro lavoro. Leggendo le pagine del libro ci si imbatte nel fatto che alcuni sono costretti a gettare la lana delle pecore spendendo soldi per lo smaltimento. Si potrebbe ipotizzare d’investire in un circuito di valorizzazione che metta in contatto domanda ed offerta, promuovendo le realtà locali?
Non è impossibile, ma, come succede sempre quando vogliamo liberarci di una cattiva abitudine, ci vogliono tempo e volontà. Il progetto Life WolfAlps Eu, a volte criticato, ha da poco pubblicato uno studio di Luisa Vielmi dedicato proprio ad analizzare la situazione della lana e a proporre soluzioni alternative allo status quo. Non è detto che sia risolutivo ma è uno sforzo nella direzione giusta, quella che parte dai problemi dei primi che devono sopportare il lupo – i pastori – e che prova ad allargare l’orizzonte coinvolgendo altri soggetti che apparentemente sono più lontani dal tema.
Vi è una sopravvalutazione dei danni del lupo che, ad esempio, risultano nettamente inferiori rispetto a quelli dei cinghiali; inoltre c’è un altro problema significativo che riguarda i cani inselvatichiti, che sono circa 400 per ogni lupo. Una percentuale che indubbiamente pone difficoltà di accertamento del danno.
È un fenomeno ben noto agli specialisti, alle istituzioni e alle associazioni di categoria. Va affrontato sul campo perché, se è vero che a livello globale il lupo incide su una percentuale minima del patrimonio zootecnico nazionale, è altrettanto vero che per il singolo pastore 20 o 50 pecore ammazzate in una stagione d’alpeggio possono rappresentare un colpo mortale per la prosecuzione dell’attività.
Il termine ibrido non è propriamente adeguato perché cane (Canis lupus familiaris) e lupo (Canis lupus) appartengono alla medesima specie biologica e generano individui in grado di riprodursi, come sottolinei nel tuo libro. Parlando di incroci, ne sono stati rinvenuti anche in Piemonte? A livello nazionale quali sono le razze o tipologie canine che maggiormente hanno interessato questo fenomeno? Come evitarlo?
Evitarlo completamente è praticamente impossibile perché la sproporzione è troppa. Ispra certifica che a fronte di circa 2000 lupi (o poco più) in Italia ci sono 800.000 cani vaganti. In Piemonte siamo all’inizio del fenomeno e stiamo provando a fermarlo per impedire che dilaghi sulle Alpi come è già successo in Appennino. Non c’è una razza canina più “incrociabile” di altre, tutte sono potenziali riproduttori (a meno di impossibilità “tecniche” con esemplari troppo diversi come i Chihuahua o simili….).
Quanto incide la presenza del lupo sulla percezione che vi possa essere un conflitto con la pratica venatoria? Vengono sollevate questioni sul fatto che questo carnivoro possa entrare in “competizione” con i cacciatori…
È vero solo in parte perché in sostanza i numeri dei capi assegnati ogni anno alla caccia di selezione non sono diminuiti di tanto. Però il ritorno del lupo ha modificato (in meglio, dal punto di vista naturalistico) i comportamenti delle prede, rendendo i cervi, ad esempio, più elusivi e difficili da trovare.
In alcune zone di montagna ancor oggi ci si imbatte in tagliole e lacci, o in vere e proprie sparatorie in periodi ed orari al di fuori di quelli venatori. La piaga del bracconaggio è ancora così diffusa? Perché?
Per fortuna è in diminuzione. Resiste in alcune aree legate a una tradizione antica e ha, purtroppo, avuto una recrudescenza proprio legata al ritorno del lupo: alcuni criminali vogliono intervenire per contrastare il fenomeno spargendo esche avvelenate che poi uccidono un po’ tutti, dai cani alle aquile agli avvoltoi. Per combattere questa piaga sono state istituite apposite squadre con cani addestrati alla ricerca condotti da guardiaparco e carabinieri forestali.
Nel 2020 è iniziato il censimento nazionale del lupo in Italia che ha visto numerosi attori partecipanti: oltre ad Ispra, il progetto Life WolfAlps Eu, il Cai e il Wwf nonché la Città Metropolitana con le guardie ecologiche volontarie (Gev). I dati ufficiali non sono ancora stati resi noti e sono attualmente in fase di studio, quando saranno disponibili? Nel frattempo sono emersi dei numeri da fonti non ufficiali che attesterebbero una presenza in Piemonte di 450 esemplari. Quanto si discostano questi dati dalla realtà?
I risultati del nuovo monitoraggio nazionale saranno disponibili, credo, verso ottobre. Non deve stupire. Sono centinaia i ricercatori impegnati e decina di migliaia le stringhe di dati da analizzare. Ho letto anch’io le dichiarazioni di 450 lupi in Piemonte ma, quando abbiamo cercato la fonte ufficiale, non l’abbiamo trovata…allora è come se non esistesse, come una qualunque chiacchiera da Bar. Scienza e ricerca si basano sui numeri verificabili e pubblici. Sono noiosi ma al momento – cioè da Galileo ad oggi – non abbiamo un sistema migliore.
Oltre al censimento diretto si utilizza ancora quello indiretto che prevede di intervistare gli abitanti delle zone e confermare i relativi avvistamenti? Grazie alla diffusione di smartphone con fotocamere performanti, oggi il metodo indiretto potrebbe risultare più accurato verificando l’adeguatezza del materiale e delle segnalazioni?
Sì, è una parte del lavoro di noi tutti. Ma non bisogna mai dimenticare che “vedere” un lupo non significa che viva proprio dove lo si è incontrato. Come hai ricordato la dispersione è il fattore più significativo dell’etologia lupina. Per due, tre o quattro anni i nuovi lupi sono errabondi e compiono spostamenti di centinaia di chilometri. Un individuo filmato a gennaio a Oulx oggi potrebbe essere a Verona o in Germania oppure morto.
Nel libro citi un’importante affermazione di Luigi Boitani: “Non c’è conservazione senza conversazione”, a suggellare il valore del dialogo attivo tra tutti gli attori coinvolti. Il tuo consiglio è quello di accompagnare e ascoltare gli allevatori, l’arte del saper comprendere che emerge in molti passaggi, con i racconti condivisi e l’immagine delle vostre sagome sedute in un prato d’alpeggio. Si dovrebbe partire da qui?
Senza dubbio. D’altronde, non è forse la regola aurea di ogni buon giornalista? Vai sul posto, guarda e ascolta. Poi, se è il caso, scrivi o giudica.
In un passaggio significativo ti avvali di una metafora: “Il lupo è come Pandora. Non è la causa di tutti i mali con cui si accompagna, è soltanto il disgraziato che scoperchia il bidone maleodorante dove quei mali sono stati accumulati”. Anche Goethe si interessò a questo mito focalizzandosi sulla figura di Epimeteo, il cui nome indica colui che si accorge tardi, agendo d’impulso senza mediare con la ragione, mentre Prometeo indica il riflettere prima di agire. Sul fondo del vaso rimane intrappolata la speranza (Elpìs), nella sua incarnante aspettativa. Si potrebbe cogliere un ulteriore significato: se nel vaso non ci fossero né mali né beni ma entità neutre, positive o negative a seconda delle intenzioni e dell’uso che ne facciamo?
Giusto, hai ragione. Il lupo è così: non è né buono né cattivo (anche se nel nostro immaginario è soprattutto “lupo cattivo”). È come il termine “farmaco” che in latino valeva sia per veleno sia per medicina: dipende dalle dosi e dall’uso che se ne fa.
Michael W. Fox nella prefazione del testo “Man and Wolf” parla di empatia che rende possibili le intuizioni che arricchiscono l’Umwelt del ricercatore. Cosa ne pensi, sapresti rispondere alla domanda empatica: “Cosa significa essere un lupo?”.
Eh no, non saprei rispondere. Per questo ho scritto il libro: per cercare di rispondere proprio a questa domanda e sono convinto che, prima degli etologi o degli amministratori, sappiano rispondere i poeti e gli artisti (nelle pagine ne cito alcuni). Il lupo è come noi, pertanto la domanda corretta dovrebbe essere: “Cosa significa essere uomo?”.
A volte è meglio il sangue e la carne sanguinolenta.