di MARIO RAIMONDO
SANT’AMBROGIO – Socchiudi la porta della sua casa a Sant’Ambrogio e, mentre il treno in lontananza sulla Torino – Modana fischia l’avvio, davvero entri in un altro mondo… Non solo perché Dino Botta è un gentleman piemontese vecchio stampo di quelli di una volta, quelli che con la loro passione e il loro lavoro hanno contribuito ai successi della nostra nazione… Ma soprattutto perché la sua passione è contagiosa e tutto ciò che passa per le sue mani sembra rinascere a nuova vita. Pensionato di quell’azienda che oggi si chiama Rai Way si schermisce “sun mac n’gratacamule…” ma basta dare un’occhiata ai lavori di falegnameria in casa “fait per cas” per capire che qui di fatto ‘per caso’ non c’è davvero assolutamente nulla.
Qui c’è qualcosa di sbalorditivo oltre la porta, in fondo alla scala…Bisogna attrezzarsi mentalmente per entrare in un mondo lillipuziano, un unicum incredibile, un gigantesco plastico di 6 metri per 1,80 che riproduce un intero sistema ferroviario. Immaginate un grande sistema ferroviario reale, immaginate di ridurlo infinite volte sino al mondo di lilliput. Il risultato di tale ginnastica mentale è qui!
Una cosa davvero straordinaria che riprende alla perfezione (voglio sottolinearlo: alla perfezione) elementi di alcune stazioni tedesche (Bonn, Ruthenbur e altre), con particolarità di altrove, tra cui la riproduzione del ripetitore Rai Way che si trova a Pampalù, alle pendici del Rocciamelone. Ma questo non è ‘solo’ un plastico, sul quale viaggiano in sincronismo perfetto decine di trenini. È un viaggio nel tempo, un itinerario dell’animo… Racconta Dino Botta: “Ero un bambino negli anni bui della guerra, ma già allora mi affascinava tutto ciò che era tecnico, sia meccanico che elettrico, mi affascinava l’idea di capire cosa ci fosse ‘dentro’ alle cose, come queste potessero funzionare… Abitavamo a Torino in via Tinelli e mio padre, Giuseppe, che lavorava alle tramvie municipali settore binari, quando usciva dal lavoro mi portava a Porta Susa a vedere i treni all’opera. Io rimanevo incantato ad osservare quei movimenti dei locomotori a vapore che, da uno scambio all’altro, agganciavano e movimentavano le carrozze per portarle sulle linee dove dovevano intraprendere il loro viaggio. Ricordo i rumori, il sapore del fumo che usciva dal fumaiolo. Guardavo quel fumo che volteggiava nell’aria fino a disperdersi… Immaginavo il fuoco della caldaia che produceva il vapore e lo sforzo degli stantuffi all’avvio, quando le ruote mordevamo la rotaia quasi ansimando e il treno, con forza che pareva sovrumana, sembrava un cavallo di ferro sotto giogo… Da quelle parti c’era un negozio di modellismo ed io quando lo scoprii passavo delle mezze giornate col viso attaccato alle vetrine. Stavo là estasiato. Più di una volta il proprietario uscì per farmi correre via: “Bocia, gaute, non stare tutto il giorno addosso alla vetrina… nessun altro riesce a vedere nulla. Cosa vuoi?”. Io volevo il treno, volevo guidare un treno, volevo un trenino. Io volevo capire, sapere come funzionava quel treno a vapore e l’elettrotreno con quella magia dell’elettricità… Volevo averlo. Era il suono delle sirene, il suono della ferrovia a riportarmi alla realtà. Non avevo un treno, non potevo guidarlo… Potevo solo guardare il fumo che svaniva in cielo come il mio infante sogno… Nella mia mano pargoletta non c’era nulla. Eppure ‘sentivo’ che un giorno, in qualche modo avrei avuto il treno”.
Finita la guerra, con l’Italia da ricostruire a mano, Dino Botta da ‘bocia’ andò a fare l’elettricista, ma sempre con lo spirito della curiosità e dell’intraprendenza: “Mi diplomai a quarant’anni, non tanto per il ‘pezzo di carta’ quanto perché volevo capire le leggi dell’elettrotecnica”, che lo ha animato per tutta la vita. Lo affascinavano le macchine elettriche, gli studi che ne avevano permesso la loro realizzazione: “dovrebbero fare in ogni paese una statua a memoria di Galileo Ferraris, uno degli uomini ai quali dobbiamo la modernità”.
Sposata Carla Artuffo nel 1962, tirata su una gran bella famiglia, giunta l’età della pensione ed ormai residente da anni in una valle intimamente connessa alla realtà delle ferrovie sin dai tempi del Traforo del Frejus, cosa esce dal cilindro della vita? Forse fu il fischio di un treno nel vento della valle, forse fu l’infante, mai sopito sogno, forse fu che un giorno decidendo di vendere l’attrezzatura per lavorare il legno, si liberò lo spazio in casa.
“Carla – dissi – smetto di fumare ed i soldi che risparmio li uso per comprare dei modellini…”. Poteva Carla dire di no all’idea che il marito smettesse di fumare? E certo che non poteva dire di no! E questo no la trasformò un po’ in complice: d’altronde come non si può essere complici di un vulcano di idee? Tutto iniziò negli anni Novanta dello scorso secolo e come tutte le cose iniziò con un primo pezzo… E poi con un secondo e un terzo ed un quarto ed un quinto ed un ennesimo, per anni ed anni. Se l’inizio fu un seme gettato non casualmente su di un terreno fertile, il risultato è davvero un grande albero.
Dino Botta accende l’interruttore e la vastità del plastico ferroviario prende vita, con la sequenza operosa di una grande ferrovia. Tutto è perfetto, ogni dettaglio è curato all’inverosimile: le vecchie locomotive a vapore emettono dal comignolo il fumo ed i suoni sono quelli veri, dal fischio del vapore, al rumore della caldaia che viene alimentata dal carbone. I treni merci corrono sui binari o vanno nei ponti di carico e scarico dove le gru prendono o posano i materiali. I treni passeggeri quando arrivano alla stazione aprono le porte ed i passeggeri ‘contenuti’ in microschermi sembra scendano davvero. Su molti locomotori poi, vi è installata una microtelecamera che trasmette via Wi-Fi ad un tablet ciò che vedrebbe un ipotetico ferroviere alla guida del treno… Semplicemente stupefacente… Le ore volano nel vedere questa vera ferrovia in formato mignon. Forse un po’ torni bambino, forse ancora per un po’ puoi credere ai sogni… Al commiato, mentre la ferrovia chiude il circuito operoso di questo giorno, sembra ancora di vedere nella penombra quel bimbo che a Porta Susa guardava nella sera i treni correre sui binari sino a quando sparivano all’orizzonte, come inghiottiti dalla notte.
Quella notte che avrebbe portato il sogno di un trenino, di una ferrovia, di un viaggio, quella notte che sarebbe stata la pagina bianca sulla quale scrivere le lettere di un desiderio da consegnare all’alba di un giorno nuovo… Certo, era solo un sogno… Ma quel bimbo sapeva che un giorno, sul suo sogno, il sole sarebbe sorto ancora (…).