di MARIO RAIMONDO
VILLAR FOCCHIARDO – Ed infine come sempre, temuto e spietato, era giunto l’inverno, quell’orso, così ci raccontavano, che dai boschi della montagna, nella notte, scendeva a valle sino in paese portando il brivido del gelo. Questo perché il calendario aveva già decretato il giorno del solstizio con la sua lunga notte che pareva eterna. D’altronde le avvisaglie c’erano state tutte: prima la brina che aveva accartocciato le foglie e le erbe dei prati, poi il gelo che aveva “bruciato” il tutto, ghiacciando tratti del Chiapinetto e della bealera che andava giù alla Comba ed infine la neve con quel manto candido che ricoprendo il tutto in modo uniforme aveva trasformato il paese in un presepe.
Ma che importava? Ora era Natale, l’unicità di una Notte e di un Giorno. Il piccolissimo presepe che la nonna aveva allestito per me e per Gigi sul ripiano della madia in cucina, con quelle statuine in gesso uniche, rappresentava davvero l’enigma della Natività. Affioravano tra il muschio, odoroso di bosco e di tannino dei castagni e guardando quei piccoli volti di mestieranti statici si poteva immaginare lo stupore di chi, davvero, in una landa della Palestina era stato, forse inconsapevolmente, testimone di quell’evento che avrebbe lasciato il segno nella storia.
L’albero di Natale, un ramo di pino che nonno Luigi, Vigiu d’Montenero, aveva tagliato ed assemblato alla meglio odorava di resina e le piccole candeline colorate con le arance ne costituivano il semplice e grazioso addobbo. Quando arrivava quella sera in cui venivano accese allora era Natale. C’era un fascino garbato, il fascino di un piccolo mondo antico in quel tremolio di luci ed ombre che raccontava di intimità, di cose buone, che sarebbero divenute l’alimento per la nostalgia futura. Fu così anche nel 1968. Che anno. Eravamo stati, noi ragazzini, inconsapevoli testimoni di un anno che sarebbe passato alla storia, che sarebbe diventato il “Sessantotto”, un paradigma, una metafora. L’anno che avrebbe scosso quell’Italia ancora un po’ bacchettona investita dal boom economico che chiedeva nuove conquiste sociali, la possibilità di nuovi stili di vita. L’anno in cui le colt fumanti di Sergio Leone ci avevano raccontato, in un capolavoro antologia e requiem di un genere, che “C’era una volta il West”. L’anno in cui il titanico, visionario, Stanley Kubrick ci aveva portato oltre le mitiche colonne d’Ercole del 2000 con quell’affascinante viaggio nel cosmo e nell’infinito datato: “2001 Odissea nello spazio”. E tutti noi a domandarci su quanto tempo sarebbe dovuto passare prima che giungesse il favoloso 2000. Eravamo soltanto nel 1968.
Un anno che soprattutto era l’anno della Luna: già il Corriere de Piccoli, ricordava su tanti numeri quanto si stesse avvicinando il momento in cui l’uomo per la prima volta avrebbe lasciato l’impronta su Selene. E noi ragazzini degli anni sessanta allevati a “pane e NASA” facevamo a gara per immedesimarci in quegli eroi, gli astronauti, che dall’interno dei tubi catodici in bianco e nero sfocato compivano quelle gesta, animando il più grande dei sogni. Io volevo il modellino dell’Apollo per quel Natale e lo scrissi nella letterina a Gesù Bambino. Avevo già iniziato a parlarne, dall’estate probabilmente, a tutti quelli che mi ascoltavano ed anche Marino Martoglio ,compagno di giochi alla Comba, ne voleva uno. E tutti quelli che conoscevo volevano l’Apollo. Così avremmo potuto giocare ad andare sulla Luna. Poi sicuramente avremmo litigato su chi sarebbe arrivato per primo, ma alla fine saremmo arrivati ad un compromesso: sulla Luna ci saremmo andati tutti quanti.
D’altronde non è forse vero che lo spazio è di tutti? Ne avevo parlato a Bertina Martoia, a Livio Ravoira, a Mariuccia Rumiano, a Cesare Pent, a tutti gli altri grandi. La litania della risposta era uguale da tutti: “Tuca stè brauv e lasè che Gesù Bambino a fasa chiel”. Ero stato bravo? Io credevo di si, mi sarei dato almeno il dieci con lode in pagella, ma non so se la maestra Carla Tinozzi era della stessa opinione. Ma ora era Natale e noi eravamo vicinissimi a Selene. Il 21 dicembre di quell’anno l’Apollo 8 con a bordo Borman, Lowell ed Anders era decollato per raggiungere la Luna e quella notte di Natale gli astronauti la stavano circumnavigando con quel moderno veliero, avvicinando un po’ l’umanità al suo sogno.
E il mio? Gesù Bambino avrebbe accolto il mio, il nostro desiderio, avrebbe letto la mia letterina? Era una sera fredda di quelle che fanno venire i brividi: prima di incamminarci per andare ad ascoltare la Messa della Notte Santa la nonna ci aveva dato una squisita minestra di castagne e riso, bollente, per riscaldarci le membra. La strada per giungere alla Chiesa era innevata e la Luna che correva verso il primo quarto la illuminava nella notte stellata.
Sotto quel chiarore pallido la neve sembrava fremere in un continuo luccichio di minuscole luci che raccontavano la magia, l’unicità della Notte Santa. Il rito officiato da don Oreste Bruno con quelle parole della liturgia della speranza accendeva davvero il Natale, il presepe dei cuori, che in ogni casa, appresso ad ogni focolare, attendeva le parole del Messia. Era la notte di Natale. Dopo i saluti veloci dei grandi sul sagrato, tutti a casa, a spegnere le luci delle candeline sull’albero, a mangiare qualche dolcetto fatto con la farina d’melia, a sgranocchiare le noccioline americane. E poi a letto, ad attendere.
Faceva un freddo incredibile e la nonna per mitigare quel freddo metteva uno scaldaletto costituito da un ovale di alluminio riempito di acqua bollente ed avvolto da un panno: se lo toccavi ti scottavi, se non lo toccavi sentivi il gelo che attanagliava le lenzuola. Ma forse era meglio rimanere svegli e magari avremmo sentito Gesù Bambino passare a portare i doni. Ma alla fine prevaleva Morfeo con il suo dono del sonno.
Al mattino al risveglio il senso della meraviglia del Natale infante era quando sentivi un leggero peso al fondo del lettino: Gesù Bambino era passato per davvero. C’era un pacco, c’era un dono, c’era il modellino dell’Apollo, c’era il gioco per bimbi che con gli astronauti volevano giocare alla conquista della Luna. Anche se ormai con l’alba la Luna era già tramontata.