STORIE DI VALSUSA / TRA LE ANTICHE CASE DI BORGATA CITTÀ, CERCANDO LE VOCI DI UN TEMPO

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di MARIO RAIMONDO

SAN GIORIO DI SUSA – “Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane (…) Ascolta. Piove dalle nuvole sparse“. Così, in una mattina piovosa all’alba dell’estate, camminando alla fine del bosco casualmente rimembravo d’una strofa del Vate mentre la pioggerellina insistente rumoreggiava suoni d’uno strano concerto tra le foglie degli alberi.

Il silenzio ed il rumore del bosco intriso d’acqua ed immerso in mille profumi che s’emanano nel cielo prossimo al solstizio, m’hanno portato nell’alto sangioriese dove spunta quel paese, quella borgata chiamata Città. Non una città qualsiasi, di qualsiasi latitudine sul globo tipo – dico a caso – Torino, o Beirut o Canberra, ma la Città per antonomasia, la piccola borgata Città a San Giorio di Susa, luogo unico dove anche l’apparente prosopopea del nome trae in inganno.

Appare quasi d’improvviso alla fine della strada che attraversa, quasi fosse un tunnel, la foresta sangioriese: da una parte si va ai Laghi del Paradiso (“Paradis dlè rane”) dall’altra all’Adrit. Di lato c’è Città: graziosa, curata e silente. Quasi ogni casa è ristrutturata o rimaneggiata: mani amorevoli sono state all’opera su queste pietre antiche. Cementi e malte nuove hanno consolidato le pietre di ieri, salvando dalla rovina e dall’abbandono quel che era la storia di ieri e dell’altro ieri, lasciando socchiusa la porta d’una storia che arriva dagli avi e che, nonostante si stia inevitabilmente concludendo, lascia ancora passare gli ultimi tenui lampi di luce che precedono il definitivo crepuscolo.

Per un istante vorrei immaginare, provare a guardare quella luce, cogliere quella frequenza che ha corso nel tempo. Qui c’era gente che abitava, viveva. Viveva una vita fatta di durezze che oggi noi, abituati agli agi del benessere, non riusciamo neanche a concepire. Gente che viveva di selvicoltura, di agricoltura e pastorizia, coltivando segale e patate, raccogliendo sino all’ultima bacca commestibile, sino l’ultima castagna disponibile. Gente che praticamente a mani quasi nude affrontava una natura forte, feroce, che non ammetteva sbagli.

Immaginate l’inverno d’un tempo a Città. Sepolta nella neve e nella morsa del gelo per mesi, esposta alla luce di un sole corto e pallido, la comunità poteva fare affidamento solo sulle proprie forze e doveva giocoforza  comportarsi come un unico organismo per tramandarsi sino alla primavera. I luoghi della comunità, il forno per cuocere i pani, la Chiesa per ingraziarsi la benevolenza di un Dio davvero lontano, erano i luoghi del cuore e della soddisfazione del bisogno e delle aspettative di questa gente. La chiesa di Sant’Anna era stata costruita il 24 novembre 1894 come sede della parrocchia e su disposizione del vescovo di Susa Edoardo Giuseppe Rosaz: questo la dice lunga su quante persone abitassero in pianta stabile quassù.

Una vita senza agi e ricchezze. Per farsi un’idea, si possono leggere alcune righe tratte dagli archivi parrocchiali (riportati alla luce dallo studioso locale don Natalino Bartolomasi) e scritte dal parroco don Vincenzo Cattero, in cui parla della sua abitazione: “La casa parrocchiale si trova in tali e così misere condizioni che è del tutto indecoroso per l’abitazione di un Parroco. I muri sono fatti di terra di montagna cosi detta terra grassa ed imboccati a calce, il pavimento a palchetto e due camere a bitume, le volte a plafun, ed il tetto a pietre sostenuto da travi di larici ed abeti di cui alcuni sono in cattivo stato e da rinnovarsi. Io abito in questa casa misera e ristrettissima, soggetta alle intemperie, stravento ed  esposta al freddo più che non qualunque della borgata, convivo con le mie due sorelle che grazie alla loro ritiratezza e bel modo di trattare godono buona stima fra la popolazione. Rilevo che gli oggetti attinenti alla casa consistono in un tavolino con cassetto; quattro seggiole di noce quasi distrutte per l’uso che se ne è fatto; una scansia per i piatti“.

Se questo era lo stato della casa parrocchiale, non è molto difficile immaginare in quale stato si trovassero le altre abitazioni. Qui sono passate persone per le quali l’orizzonte degli eventi è stato per tutta la vita la borgata Città, i suoi boschi ed  suoi pascoli ordinati e puliti in un modo che oggi, nell’età delle terre incolte e dell’abbandono, manco riusciamo a concepire.

Era – l’ordine dei boschi, dei pascoli, delle bealere – ai nostri occhi moderni forse l’unico aspetto positivo di quei tempi ormai lontani, dove il vivere con parsimonia era regola ferrea che non ammetteva deroghe. Ma non creava l’infelicità dell’egoismo, la nullità del consumismo.

Alcuni anziani di questa borgata mi raccontarono in una storia che – con il senno di poi – fa riflettere: “Vivevano tutti da poveri perché tali erano. Forse non desideravano di più, forse manco immaginavano esistesse di più, perché tutto in fondo era a Città. La loro strada era l’impervia mulattiera che a percorrerla a piedi ci mettevi una vita. Poi vennero le strade. Ed arrivò la velocità delle macchine che generò la velocità della vita. Adesso era il momento di poter avere il tutto che svuotò le montagne, cancellando in un sol colpo la storia d’una civiltà alpina considerata minore solo perché lontana dalle luci della ribalta. Ma un giorno verrà che il tutto trovato o promesso, non basterà od esisterà più. Ed allora si vorrà di più e di più ancora. E così si perderà anche quel che si credeva acquisito per diritto perpetuo perché mai la madre terra concederà al suo figlio intelligente una rendita perpetua. Verrà un giorno in cui le luci della ribalta saranno spente. Non sappiamo con quale parola, con quale vocabolo, chiameranno quel giorno. Ma ancora quel giorno esisterà Città“.

Forse volevano dire che dopo l’abbuffata, dopo il tutto “provato e gustato” le cose cambieranno, che dopo “il sempre di più” ci sarà il tempo del meno, che quello che oggi chiamiamo “sostenibilità” ha molto a che vedere con la parsimonia d’un tempo. Forse volevano dire qualcos’altro. Non lo so. Passeggiando una mattina d’estate sotto la pioggerellina di nuvole sparse tra le viuzze di Città, mi son tornate in mente queste parole umane di un tempo che era antico. E nel grande silenzio di Città invano ho cercato le voci.

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