di MARIO RAIMONDO
ALMESE – Alla fine, in punta di piedi, senza voler dare troppo disturbo, anche Bruno Carè ha intrapreso il sentiero del lungo viaggio. Non posso però dimenticare quei davvero ruggenti e felici anni a cavallo tra la metà del Sessanta e la metà del Settanta quando tutti assieme abitavamo nella Curt d’Roc in via Roma ad Almese.
Uno scrigno di ricordi preziosi e genuini da rivivere e di nuovo archiviare con parsimonia, affinchè nulla vada disperso tra i rivoli della memoria. Una posizione strategica quella della Curt d’Roc alle spalle di via Rubiana: eravamo a due passi dalla fabbrica almesina dei sogni, il Cine Sada, e sull’arteria principale del paese che portava a Villar Dora dove abitavano i “nemici”, gli altri ragazzini residenti au Vilà con i quali, sulla linea di confine delle Bajarde a volte ci azzuffavamo, qualche volta a colpi di sassi, in “lotte e battaglie” da antologia che avrebbero benissimo potuto ispirare allo scrittore ungherese Ferenc Molnàr.
Sassi che poi cercavamo di evitare quando per via Roma li lanciava Geniu Trrr, un vagabondo che viveva di accattonaggio e che diventava furibondo quando il nugolo di monelli scatenati come uno sciame che eravamo, lo circondava, urlandogli: “Trrrr..Trrrr..Trrrr..” ma mai però ci saremmo permessi di fare altrettanto alla Frila che abitava all’imbocco di via Rubiana: era brutta, sporca, ci faceva paura, si sussurrava potesse fare “la fisica”, sembrava una strega uscita dalle pagine di un libro di fiabe dei fratelli Grimm.
Non potevamo sapere, e neanche avremmo potuto capire, che dietro quella maschera da megera c’era l’anima di una che persona nascondeva il segreto di una vita terribile. Questo più o meno era un dettaglio del quadro quando Bruno Carè con la moglie Cecilia Nesci e i figli venne ad abitare ad Almese.
Attratto ,come tanti, dalla necessità di dare un futuro migliore alla famiglia con il lavoro alle Ferriere Fiat di Buttigliera Alta, Bruno Carè come tutti i nostri genitori, afferrò subito il concetto che la classe operaia non va in paradiso e che il piccolo pezzo di paradiso necessario qui sulla terra bisognava sudarselo.
Ecco allora il doppio lavoro eletto a consuetudine di vita: dare una mano a Tizio o a Caio, far mezza giornata per Sempronio. Ricordo ancora quando il martedì mattina, magari dopo aver fatto il notturno alla Ferriera dava una mano al maniscalco, l’feracaval, che aveva la sua officina proprio al fondo dla Curt d’Roc.
Si, perché nell’Almese di allora i quadrupedi da ferrare erano ancora molti dal momento che venivano ancora impiegati largamente nei lavori agricoli: forse l’unico cavallo aristocratico della zona era quello di Matteo Druetta, il marito di Egle Blandino, che aveva una stalla tutta per se ,un vero golden horse. Certo la paga era bassa, molte volte in natura: una dozzina di uova, una gallina, qualche chilo di patate..ma tutto serviva, ogni piccola cosa era rispettata, accantonata con la virtù e la pazienza delle formiche, perché necessaria alla costruzione di quel domani migliore che si respirava nell’aria.
Si respirava in tutte le stagioni ,davvero, quell’aria. Era l’Italia del boom economico che uscito dalle città s’allargava a macchia d’olio in ogni villaggio e paese. Era così anche in Val Susa, ed anche ad Almese. Il paese iniziava lentamente a perdere la sua “ruralità”, il carburatore del tempo iniziava a preparare il motore ai regimi delle velocità necessarie all’avvenire munifico sognato.
Però che nostalgia per quell’aria guardando adesso all’indietro nel trascorso del tempo. Come non dimenticare ogni Natale? Bruno Carè arrivava a casa con la sua Fiat 600 Multipla con i doni che il Babbo Natale della Fiat portava per i figli dei dipendenti ed era subito gazzarra attorno a quei giochi che tra l’altro erano solitamente belli e di pregio, autentico “Made in Italy”. Spesso già a Capodanno erano tutti scassati, ma che importava. C’eravamo divertiti. Mi divertii sicuramente meno quella volta che Meco Carè in una disputa mi squarciò la mucca Carolina che con tanta pazienza, accumulando i punti dei formaggini il “Milione Invernizzina”, mia madre aveva preso in premio.
Fu una tragedia nazionale che ebbe fine solo quando al rientro dalle ferie dalla Calabria Bruno Carè portò, oltre alla immancabili soppresate e mostaccioli, un coniglio di plastica gonfiabile col quale giocammo per tutto il resto dell’estate. Quelle estati quando la sera giocavamo tutti insieme, Raimondo boys, Carè boys, Angelo Serra, Alberto Blandin Savoia, Ezio Rho, Margherita e Stefano Nuttini , più tutti gli altri, Pinuccio Petroso in testa, per quell’allegro “ciadel” che animava la Curt d’Roc. Si concludeva con l’immancabile sgridata a tutti noi da parte di Elda Raimondo che al mattino doveva alzarsi presto e prendere il pullman per andare a lavorare alla Magnadyne a Sant’Antonino di Susa.
Allora, quando non ce la prendevamo con Battista Raimondo, che magari aveva dato un po’ di generosa ospitalità a Bacco, con quella filastrocca che lo faceva infuriare: “Batista..Batista..Batista a tira la rista, la rista a je sciapà e Batista a je rubatà!” – sfogavamo l’ira monella sui campanelli altrui: quante volte destammo nella tarda sera dal sonno Ivo Martinasso, Elda Gay, Giuseppe Ballari, l’laitasè, Pierino Bordisio, l’vinè e, nel cortile dei Dalmasso, Giuseppe Gabino e la moglie Maria Martinasso (Maria d’fia) che se ci avesse beccato.
Quelle estati ,quando le mamme si riunivano nel cortile per fare le conserve, o per andare al cinema la sera magari per vedere la terza riedizione dell’Incompreso di Luigi Comencini. E tutte a piangere, con occhi grossi così. Era davvero viva la Curt d’Roc in quegli anni e di aneddoti potrebbero raccontarsene centinaia e altri ancora.
Quando mancò mio padre Bruno Carè venne a trovarmi. Si sedette, gli offrii un caffè, parlammo del più e del meno, dell’ovvio, dell’oggi e del ieri. Al commiato ( ci davamo del voi) mi disse: “È andata così, non potete fare più nulla per vostro padre. Quegli anni la quando eravate piccoli erano belli perché eravamo una specie di cortile famigliare, un gran numero di persone e anche se a volte si litigava nessuno sarebbe mai stato solo davanti a qualche guaio. Poi il tempo passa. Si è portato via prima vostra madre, poi mia moglie, oggi vostro padre. Non vorremmo pensarci mai, non vorremmo saperlo mai ma ognuno, alla fine, ha il suo giorno“.
Per Bruno Carè quel giorno è stato il 17 settembre 2018.
Bellissima dedica, piena di sincero affetto e amore, quella fatta a Bruno Care’.
Sono Valsusina (Chiomonte Ramats) e, nella descrizione di quel tempo che fu’, mi ci sono ritrovata appieno. Non saprei dire se è malinconia quella che sto provando ma è un sentimento struggente e dolcissimo allo stesso tempo. Ce ne fosse ancora di armonia del vivere così forse saremmo un po’ tutti migliori ed è un vero peccato che le nuove generazioni, spesso e volentieri, non abbiano la più pallida idea di cosa sia stato quel tempo perduto. Buona giornata e buon lavoro!
Un articolo così merita veramente di essere premiato, come si farebbe oggi : ), con bel “mi piace” ma molto sincero. Grazie . Loredana Sibille
Bellissimo
Bellissime parole, dettate col cuore,