di MARIO RAIMONDO
VILLAR FOCCHIARDO – Ci ritrovavamo sempre lassù alla Cà d’Fer, svariate volte durante l’anno ed immancabilmente durante l’autunno, ad ottobre, quando i ricci si schiudono dandoci in dono quei preziosi frutti che sono i marroni del Villar. Roberto Rocci aveva nel cuore quel castagneto avito e la cura con cui lo conduceva non aveva eguali od emuli nei paraggi: quando alla fine dell’estate tagliava l’erba la tagliava in un modo così perfetto che, più che all’opera del decespugliatore, si poteva pensare all’intervento del rasoio da barba.
Dopo il lavoro all’Olivetti che fu peraltro ricco di gratificazioni, ecco finalmente il pensionamento e il “richiamo del bosco” che inevitabilmente fa sentire la sua voce come melodia di una sirena omerica a chi per tradizione, memoria, passione, ha le radici nelle storie ancien regime della montagna villarfocchiardese.
Storia e storie. Roberto Rocci me ne raccontò più d’una volta, una: “Qui dove ora c’è questa giovane pianta, c’era un tempo un castagneto gigantesco che raggiungeva i trenta e passa metri, un vero colosso. Accadde nella tarda primavera del 1944. Un crepitio di mitraglia all’improvviso annunciò un rastrellamento da parte di una colonna di truppe nazi-fasciste venute in paese a cercare quelli che chiamavano ribelli. Tuo nonno Luigi, mio padre, mia zia Zita Rocci, si trovavano casualmente qui, per lavori e forse il posto, data la situazione degli eventi, non era dei più convenienti. Potevano pensare che avessero dei partigiani nascosti da qualche parte oppure che avessero appuntamento con loro. Che fare? Fu tuo nonno che spinse tutti su ad arrampicarsi su quell’albero ed a trovare riparo tra quelle fronde. Erano talmente folte che riuscirono ad evitare di essere visti dalla soldataglia germanica e repubblichina che pattugliavano il terreno ma non immaginavano potesse esserci qualcuno nascosto in cima al castagno“.
Roberto Rocci, amava il suo castagneto, amava la terra di Valsusa, così offesa dal cemento, così vilipesa dal gerbido. Da tecnico, ma anche da “romantico”, qual’era aveva capito che il quieto tran tran della castanicoltura aveva bisogno di una scossa, di una innovazione in grado di dare un nuovo respiro, una nuova visibilità nell’epoca della società dell’immagine ad un comparto che da sempre produce eccellenza.
“Ne parlavamo – raccontava Roberto – in un modo un po’ carbonaro tra di noi, io, Giuseppe Rovere, Graziano Borello, Roberto Plano e gli altri. Fu l’idea della Cooperativa ad essere sfida vincente. E quale cooperativa? La Maruna, naturalmente, che nel patois villarfocchiardese puro è sinonimo di Marrone“.
Come dire: nomen omen. La Maruna, nata nel 2003, della quale Roberto Rocci è stato il primo presidente, è riuscita nel centrare l’obiettivo di dare un maggiore ritorno economico ai produttori ed un maggiore blasone al prodotto con l’acquisizione del marchio IGP per il frutto valsusino. Un merito che in gran parte va ascritto alla tenacia, alla perseveranza, alla lungimiranza di Roberto Rocci, figlia di quel sorriso che abbozzava sul viso quando felice s’addentrava nel suo castagneto del quale è stato davvero l’ultimo re dei castagneti.