Un’avventura indescrivibile raccontata nel bel reportage di Giordano Abbà: l’atleta, componente della squadra ciclistica valsusina Scott Sumin, ha partecipato alla “Himalayan Highest MTB Race”, la corsa a tappe più alta del mondo, sempre in quota tra i 3500 metri della capitale Leh e i 5602 metri del Khardlungla pass. Tornato pochi giorni fa dallo stato indiano del Ladakh, tra i confini di Pakistan e Tibet, Giordano racchiude i suoi ricordi in queste belle righe.
Ladakh, India. Luglio 2016.
La sfida stavolta è superare il limite. Spingersi un po’ oltre, affacciarsi lassù, lasciare le impronte della propria mtb sul tetto del mondo. La strada carrozzabile più alta che l’uomo possa percorrere ha il suo apice nel Khardungla pass, a 5602 metri sul livello del mare. Ma la scalata alla vetta è solo il gran finale del film.
La scenografia sono le montagne del “Piccolo Tibet”, una regione dell’Himalaya indiano così chiamata proprio per le caratteristiche geografiche, orografiche e culturali che ricordano in tutto e per tutto quelle tipiche tibetane, poste qualche centinaio di chilometri più ad est.
I protagonisti sono 23 sportivi provenienti da tutto il mondo e di tutte le età, desiderosi di mettersi in gioco in una sfida oltre i propri limiti. Il film si intitola “Himalayan Highest MTB Race”, e già sarebbe sufficiente per attirare l’attenzione di tutti gli appassionati di mountain bike, ma andando a spulciare i numeri promessi, l’attenzione diventa ossessione e voglia di partecipare a tutti i costi: 600 km e 7500 m di dislivello positivo da percorrere in 6 tappe, due settimane senza mai scendere sotto i 3500 m di altitudine, 3 passi oltre i 5000 metri.
La regia del film prevede un prologo di 3 giorni, il cosiddetto acclimatamento, in cui ci si abitua alla quota e ci si allena in altura, in modo che il fisico abbia la possibilità di adattarsi alle diverse condizioni climatiche, in particolare alla minore pressione di ossigeno nell’aria.
Poi la trama entra nel vivo, con la prima tappa da Upshi a Chumatang, seguendo le sponde del fiume Indo, in un canyon che nulla ha da invidiare ai paesaggi tipici dell’Arizona o del Colorado. Il contatto con la natura è totale: si dorme in tenda in lande desolate, ci si lava nei torrenti. Il giorno successivo si sfiorano per la prima volta i 5000, poi ci si accampa sulle rive del Tsho Kar Lake, un lago salato a 4600 metri di altitudine posto in un’oasi naturale di straordinaria bellezza.
La terza tappa prevede lo scollinamento al Thanglangla pass, quota 5360 metri: durante la salita il fiato si fa affannoso, serve concentrazione per inspirare il maggior quantitativo di aria possibile e continuare a pedalare. Poi una lunga discesa verso Upshi, tra paesini semiabbandonati, coltivazioni di riso e prati incredibilmente fioriti, è la scena finale del primo tempo del film.
Il trasferimento al campo di Chemrey si fa in auto. Da qui l’indomani inizia la seconda parte del viaggio: una lunga salita mette a dura prova il fisico già stremato dalle fatiche di tre giorni, ma con la forza della mente, più che con quella delle gambe, si arriva al Changla pass, e stavolta sono 5380 metri. La discesa è difficile e tecnica, la strada non è per nulla agevole, ma una curva dopo l’altra si entra lentamente in un altro scenario: la Nubra Valley, un lungo canyon scavato nella roccia dal fiume Shyok, che si snoda come un lungo serpente alle pendici della catena montuosa del Karakorum, perfetto paesaggio per la quinta tappa, un insidioso ma veloce e divertente saliscendi lungo le rive del fiume, ottima occasione per rifiatare un po’ e risparmiare le ultime cartucce per il capitolo finale.
Ultimo giorno: finalmente la tanto attesa cronoscalata al Khardungla pass. I suoi 5602 metri sembrano irraggiungibili, e le condizioni meteorologiche non aiutano affatto: un vento gelido sferza i suoi colpi da metà strada in poi, proprio quando l’asfalto lascia il posto allo sterrato ed alle pietre, proprio quando l’affanno comincia a diventare pesante, e la polvere si mischia ai sottili granelli di ghiaccio che il vento stacca dalle pareti rocciose ancora coperte di neve e spara come proiettili addosso ai 23 temerari che lottano metro dopo metro come in una vera e propria bufera di neve. Ma il traguardo è sempre più vicino e una volta in vetta, stremati dalla fatica fisica e mentale, non resta che fermarsi un attimo ad osservare il mondo là sotto, piccolo, lontano, e rendersi conto di poter quasi toccare il cielo.
E già sui titoli di coda del film, il pensiero è già rivolto alla prossima sfida. Ma cosa c’è ancora oltre questo limite? Si può ancora spostare l’asticella un po’ più in là? Cosa ci inventeremo per superarci un’altra volta? Forse per un po’ è meglio fermare i pensieri, chiudere gli occhi e continuare a sognare l’ultima scena del film, noi in cima e tutto il mondo sotto.